A cura della Dott.ssa Francesca Saccà, psicologa a Roma
“Gentile Dott.ssa, mi permetto di scriverle qui, dopo aver letto il suo articolo sulla nostalgia… Appena ho visto il titolo l’ho fatto subito mio, perchè tocca e suona delle corde profonde del mio animo. Sono passati 12 mesi dal terremoto (quello del 6 Aprile di L’Aquila) e non so se quello che provo è nostalgia, o una qualche altra forma di male di vivere, ma quando penso che non rivedrò più casa mia, il mio piccolo quartiere (che qui da noi si chiamano Cantoni) le solite persone che vedevo ogni giorno, i rumori che sentivo ogni mattina, l’odore del pane appena sfornato che invadeva tutti i vicoli della Piazza del comune, la mia casa in pieno centro ora distrutta…quando penso a tutto questo, forse è nostalgia quella provo, non so, ma inizia a farmi male il cuore, lo sento vuoto, batte più velocemente e in modo disordinato. E questa nostalgia, se così si chiama, mi sta lentamente uccidendo…”
Grazie, Eleonora
Cara Eleonora, innanzitutto ti ringrazio per avermi dato la possibilità di ricordare con la tua emozionante lettera la terribile disgrazia che ha colpito l’Aquila e gli Aquilani esattamente un anno fa. Rispondendo a te è come se potessi entrare in contatto con tutti quelle persone che, ad oggi, vivono nella tua stessa condizione e questa per me è un’opportunità importante. Vorrei innanzitutto ricordare che il 6 Aprile 2009 il terremoto ha colpito non solo le case ma anche le “strutture psicologiche portanti” delle persone.
Il sentimento di nostalgia che tu così bene mi descrivi, quello che sa di affetti, rumori e sapori mi fa venire in mente la descrizione che Renos K.Papadopoulos, consulente psicologo che ha lavorato molti anni con i rifugiati, applica ai vissuti di tutti coloro che hanno perduto la propria casa. La casa nell’analisi di K.Papadopoulos non è soltanto un luogo, ma anche il “fascio di sentimenti associato a esso” e dunque ecco che “la nostalgia non può essere separata da ciò che la casa rappresenta soprattutto a livello simbolico. In particolar modo per i rifugiati, ciò crea un disorientamento in quanto si rivela impossibile stabilire con esattezza l’origine precisa di una perdita che non si limita a quella tangibile di una casa tout court, intesa nella sua materialità, ma che si allarga alla perdita di tutti i tipi di rapporti personali che il soggetto intrattiene con se stesso, con gli altri e con l’ambiente sociale che lo circonda”.
Dopo aver perso la propria casa e con essa sentimenti e certezze che hanno segnato e dato senso alla propria esistenza, la nostalgia può rappresentare un’emozione talmente intensa da manifestarsi come esperienza dolorosa, e condurre ad un malessere psichico e fisico. Spesso la nostalgia si condensa intorno ad alcune immagini (di oggetti, di luoghi, di persone) che si rivelano nell’esperienza come fortemente significativi per la propria dimensione dell’essere e molto consolatori rispetto al vissuto dello spaesamento.
Il terremoto (come altri disastri naturali) agisce su aspetti profondi e importanti delle persone, distrugge ciò che, oltre ad essere un bene economico, ha per noi un significato fondamentale: la casa, intesa come rifugio, luogo sicuro, un luogo da dove partire e dove tornare. Le persone si ritrovano all’improvviso sotto l’attacco di qualcosa che non possono gestire e senza punti di riferimento. Vanno dunque aiutate non solo materialmente nella ricostruzione, ma anche in una ricostruzione di una “casa” sicura interiore, di quel rifugio interiore che è andato perduto. Superata l’iniziale fase di emergenza rimane un lungo lavoro di elaborazione dei vissuti sarà necessario ai superstiti del terremoto per ritrovare, ciascuno a suo modo e secondo la propria struttura psichica, quella base di serenità che consente di riprendere a vivere. Dunque ad una ricostruzione materiale dovrà affiancarsi una psicologica. Come i tecnici dovranno ricostruire le case, così gli psicologi dovranno aiutare le persone a ricostruire le proprie strutture interiori, che risultano anch’esse lesionate.
Il lavoro dello psicologo può aiutare in questi casi a ristabilire, nelle persone che hanno subito una tragedia simile, un equilibrio per poter andare avanti. All’interno della riedificazione di una nuova stabilità la nostalgia può rappresentare un’importante punto di partenza: gli “oggetti” della nostalgia ci rivelano molto dell’inespresso della persona, non solo del suo passato, ma anche dei suoi bisogni, dei suoi desideri nel presente.
Un buon aiuto psicologico non sarà teso a cancellare dalle menti ciò che non si può dimenticare bensì a favorire il processo di ricostruzione delle potenzialità psichiche, attingendo alle risorse individuali di ognuno per la difesa della vita.
Si, perché la buona notizia è che le persone possono reagire anche nei confronti degli eventi più terribili della propria vita. In psicologia questa capacità prende il nome di “resilienza” e connota proprio la capacità delle persone di far fronte agli eventi stressanti o traumatici e di riorganizzare in maniera positiva la propria vita dinanzi alle difficoltà. Resilienza è un termine derivato dalla scienza dei materiali e indica la proprietà che alcuni materiali hanno di conservare la propria struttura o di riacquistare la forma originaria dopo essere stati sottoposti a schiacciamento o deformazione. La resilienza non è una caratteristica che è presente o assente in un individuo; essa presuppone invece comportamenti, pensieri ed azioni che possono essere appresi da chiunque. Avere un alto livello di resilienza non significa non sperimentare affatto le difficoltà o gli stress della vita nè significa essere infallibili ma indica l’essere disposti al cambiamento quando necessario; disposti a pensare di poter sbagliare, ma anche di poter correggere la rotta.
Le persone resilienti hanno la possibilità di rivalutare la propria sofferenza e modificare l’idea che hanno di essa, integrarla nella propria storia individuale. Le ferite non si rimargineranno mai completamente: rimarranno sempre una zona di vulnerabilità, un punto debole, che, d’altro canto, potranno rappresentare un punto di forza, nella misura in cui permetteranno di vivere appieno il nuovo stato di realizzazione personale raggiunto. In questa prospettiva, il trauma rappresenta una sfida che mobilita le proprie risorse interne, oltre che quelle socioculturali dell’ambiente circostante: non ci si può esimere dall’accettare tale sfida, perché la vittoria rappresenta il raggiungimento di un equilibrio nuovo e superiore, rispetto a quello da cui si era partiti.
Ed è proprio così che vorrei concludere questa mia riflessione, nell’incoraggiare Eleonora e tutti quelli come lei ad affrontare la sfida della vita.
Ricostruire per difendere la vita, una “nuova” vita, credo che questo sia il significato profondo di quello che ora sembra non avere senso..
Un abbraccio Eleonora
Dott.ssa Francesca Saccà